lunedì 1 aprile 2019

Venticinque anni fa....

C’è gente che fa del male ad altra gente senza motivo ed io vorrei massacrarla. Ma l’unica cosa che riesco a fare è urlare in un microfono. (Kurt Cobain)


Son passati venticinque anni e sembra ieri quando la sua capigliatura bionda spiccava nelle platee di tutto il mondo o bucava i tubi catodici delle tv quando, insieme al suo gruppo, i Nirvana, erano divenuti un mito.
Eppure, Kurt Cobain, l’angelo biondo che tutti ricordiamo per la sua musica e la sua profonda tristezza, non c’è più. Di sicuro, lui, è stato uno dei più importanti testimoni del tempo, quello di una generazione che non è riuscita ancora a trovare un proprio ruolo nella società e non è neanche un caso che quel nirvana ci appartenga, si perché nel nirvana c’è pace intima e libera da inquietudini, ma per Lurt Cobain così non è stato. Lui ha rappresentato il simbolo di una gioventù che segnava il passaggio tra la fine della guerra fredda e l’inizio di un nuovo millennio, sempre più carico di incubi e di domande, di perché e di per come. Cobain aveva sempre nutrito in sé una sorta di senso di colpa, soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita, quella esistenza completamente disfatta e fatta dalle pesanti droghe assorbite. Forse la consapevolezza di essere diventato ormai un mito gli ha pesato troppo e così, dopo aver tentato il suicidio a Roma, riesce poi a spararsi un colpo di fucile in faccia nella sua casa di Seattle. Già, Seattle, la città che diede i natali al grande Jimi Hendrix, anche lui morto a soli 27 anni, ma anche la città dei natali del grunge che ha sfornato gruppi come i Soundgarden che vantano anche il suicidio di Chris Cornell, dei Melvins, dei Mudhoney, dei Mother Love Bone che persero per overdose il carismatico Andrew Wood , dei Pearl Jam, degli Alice in Chains e tanti altri. Eppure nella storia di Cobain esiste un paradosso non comune ad altri infatti, il frontman dei Nirvana togliendosi la vita ha chiuso un periodo fissandolo indelebilmente nel tempo; qui non si può parlare di influenze successive della sua musica perché Cobain non ha influenzato la musica con l’arte bensì con la sua morte, violenta ed assurda. Nella lettera d’addio dedicata a Boddah, l’alter ego del Cobain bambino, è tutto scritto e chiarito. Quel ragazzo di 27 anni al cospetto con la propria fine è così lucido da giungere a scrivere: «Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai». Kurt aveva perduto il relazionarsi con l'io interiore, i sentimenti erano completamente scomparsi, il taglio con ogni ancoraggio possibile alla vita era stato tranciato. Ma per una rockstar è impossibile sottrarsi alle congiure o alle fantasie. A una rockstar non è concesso riposare in pace e tanto meno scegliere il suicidio per uscire di scena. Eppure Cobain aveva tutto, bello, ricco, famoso, talentuoso, con una moglie che lui considerava divina ma in realtà odiata da tutti ed una figlia che gli ricordava troppo di quando lui era come lei, pieno di amore e gioia. Kurt non c’è più da vent’anni, ma la sua musica vive ancora e trasuda irrequietezza da ogni suo testo, da ogni sua canzone. Accade anche per le nostre giovani generazioni, non quelle però che si ritrovano sotto simboli che ricordano genocidi e forse, questi ultimi, non se ne rendono conto.