Son
passati venticinque anni e sembra ieri quando la sua capigliatura bionda
spiccava nelle platee di tutto il mondo o bucava i tubi catodici delle tv
quando, insieme al suo gruppo, i Nirvana, erano divenuti un mito.
Eppure, Kurt
Cobain, l’angelo biondo che tutti ricordiamo per la sua musica e la sua
profonda tristezza, non c’è più. Di sicuro, lui, è stato uno dei più importanti
testimoni del tempo, quello di una generazione che non è riuscita ancora a
trovare un proprio ruolo nella società e non è neanche un caso che quel nirvana
ci appartenga, si perché nel nirvana c’è pace intima e libera da inquietudini,
ma per Lurt Cobain così non è stato. Lui ha rappresentato il simbolo di una
gioventù che segnava il passaggio tra la fine della guerra fredda e l’inizio di
un nuovo millennio, sempre più carico di incubi e di domande, di perché e di
per come. Cobain aveva sempre nutrito in sé una sorta di senso di colpa,
soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita, quella esistenza completamente
disfatta e fatta dalle pesanti droghe assorbite. Forse la consapevolezza di
essere diventato ormai un mito gli ha pesato troppo e così, dopo aver tentato il
suicidio a Roma, riesce poi a spararsi un colpo di fucile in faccia nella sua
casa di Seattle. Già, Seattle, la città che diede i natali al grande Jimi
Hendrix, anche lui morto a soli 27 anni, ma anche la città dei natali del
grunge che ha sfornato gruppi come i Soundgarden che vantano anche il suicidio
di Chris Cornell, dei Melvins, dei Mudhoney, dei Mother Love Bone che persero
per overdose il carismatico Andrew Wood , dei Pearl Jam, degli Alice in Chains
e tanti altri. Eppure nella storia di Cobain esiste un paradosso non comune ad
altri infatti, il frontman dei Nirvana togliendosi la vita ha chiuso un periodo
fissandolo indelebilmente nel tempo; qui non si può parlare di influenze
successive della sua musica perché Cobain non ha influenzato la musica con
l’arte bensì con la sua morte, violenta ed assurda. Nella lettera d’addio dedicata a Boddah, l’alter
ego del Cobain bambino, è tutto scritto e chiarito. Quel ragazzo di 27 anni al
cospetto con la propria fine è così lucido da giungere a scrivere: «Io non
provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e
nello scrivere da troppi anni ormai». Kurt aveva perduto il relazionarsi con
l'io interiore, i sentimenti erano completamente scomparsi, il taglio con ogni
ancoraggio possibile alla vita era stato tranciato. Ma per una rockstar è
impossibile sottrarsi alle congiure o alle fantasie. A una rockstar non è
concesso riposare in pace e tanto meno scegliere il suicidio per uscire di
scena. Eppure Cobain aveva tutto, bello, ricco, famoso, talentuoso, con una
moglie che lui considerava divina ma in realtà odiata da tutti ed una figlia
che gli ricordava troppo di quando lui era come lei, pieno di amore e gioia.
Kurt non c’è più da vent’anni, ma la sua musica vive ancora e trasuda
irrequietezza da ogni suo testo, da ogni sua canzone. Accade anche per le
nostre giovani generazioni, non quelle però che si ritrovano sotto simboli che
ricordano genocidi e forse, questi ultimi, non se ne rendono conto.